NEW MEXICO:
 SULLE TRACCE DI BILLY THE KID


RISERVE INDIANE, LA PISTA DI SANTA FE, LA VALLE DEL RIO GRANDE.
ATTRAVERSARE IL NEW MEXICO È COME ENTRARE IN UN FILM WESTERN.


Testo e foto di Guido Zurlino





    Se Pat Garrett e Billy The Kid potessero tornare sugli scenari che li videro protagonisti della loro celebre saga, forse non si renderebbero conto che dai loro tempi sono passati più di cento anni. Nelle sconfinate praterie e foreste del New Mexico meridionale potrebbero cavalcare per giorni e giorni senza vedere un traliccio dell’alta tensione o un palo del telefono, e nelle zone più selvagge neppure una strada asfaltata. Quanto agli esseri umani... in uno stato con una superficie superiore a quella del nostro Paese e meno di un milione e mezzo di abitanti (perlopiù concentrati nelle aree urbane), è piuttosto improbabile che riuscirebbero a incontrarne qualcuno. E anche in questo caso avrebbero a disposizione pochi elementi per valutare lo scorrere del tempo. Certamente non l’abbigliamento, ancora ligio a una tradizione di Stetson a tesa larga, cinturoni di cuoio e ampie camicie a scacchi; o tantomeno la lingua, distorta dall’accento cantilenoso del Sud e infarcita di slang e vecchie espressioni idiomatiche. Eppure, a parte le asprezze linguistiche, nel New Mexico non occorre sforzarsi troppo perché la memoria e la fantasia del turista comincino a galoppare. Risalendo a nord del confine messicano verso Albuquerque e Santa Fe si incontrano località dai nomi suggestivi come Silver City, Las Cruces e la stessa Contea di Lincoln, teatro delle gesta del Kid, che non mancano di procurare un brivido nostalgico a tutti gli ammiratori del “bandito bambino”. E l’arrivo a Santa Fe, tappa finale della leggendaria pista omonima e teatro di sanguinosi scontri tra indiani e coloni, evoca le immagini polverose dei grandi western da cineteca. In alcuni tratti della pista originale si possono ancora vedere i profondi solchi scavati dal passaggio di migliaia di carri e pare quasi di udire in lontananza il brontolio sordo di una stampede (una mandria impazzita) e le urla rabbiose degli anonimi ragazzi immortalati in decine di romanzi di Louis L’Amour.

La città dei record

Santa Fe vanta con orgoglio il titolo di “capitale più vecchia degli Stati Uniti”, essendo stata fondata dagli spagnoli nel 1610, cioè dieci anni prima dello storico approdo dei Padri Pellegrini alla Plymouth Rock, in Massachusetts. Che l’America soffrisse del complesso di essere una nazione giovane è un fatto ormai scontato. Tutto quello che può essere considerato storico (o anche semplicemente vecchio) viene messo in evidenza ed esibito con grande fierezza, anche se non sempre a buon diritto. Valga per tutti l’esempio della cappella di San Miguel nei pressi della piazza centrale di Santa Fe, che un vistoso cartello indica come la chiesa cattolica “più antica” degli Stati Uniti. In realtà la struttura originale del 1626 fu bruciata dagli indiani alla fine del XVII secolo e completamente ricostruita nel 1710, una data che di fatto le precluderebbe il primato di anzianità... ma le autorità comunali devono aver pensato che non fosse il caso di sottilizzare troppo e hanno esposto ugualmente il cartello. Del resto, questa smania tutta americana di esibire i record più insoliti riappare negli slogan delle agenzie turistiche locali, pronte a ricordare in continuazione che Santa Fe è la città “più elevata” degli Stati Uniti (2.118 m), che qui si trovano la “casa più vecchia dell’America del Nord” e il “più vecchio edificio pubblico” (il Palazzo dei Governatori), e persino che vi si insediò la “prima comunità europea a ovest del Mississippi”. Più sommessamente, nel centro della Plaza un modesto monumento ricorda tutti “gli eroi morti combattendo contro i selvaggi indiani”. Durante qualche notte senza luna una mano ignota ha cancellato a colpi di scalpello la parola selvaggi dalla lapide di marmo.


Un viaggio nel passato

“All aboard!” grida per l’ennesima volta il capotreno, e quando anche l’ultimo passeggero è salito recupera dalla pensilina gli sgabelli sui quali bisogna salire per accedere alle carrozze, proprio come usava nell’Ottocento. Con un fischio stridente e un’enorme nuvola di vapore la vecchia locomotiva a carbone si accinge a ripartire. Un pennacchio di fumo nero sporca il cielo limpidissimo, mentre il convoglio riprende il suo viaggio in uno scenario di vallate smeraldine, foreste di abeti e pioppi, montagne maestose, gallerie, ponti e canyon vertiginosi. No, non siamo a Disneyland, e neppure a Disneyworld. Ci troviamo sempre nel New Mexico, a oltre 3.000 metri di altitudine, e stiamo percorrendo un segmento superstite (102 km a scartamento ridotto) della ferrovia che nel secolo scorso univa Denver a Silverton scavalcando le propaggini meridionali delle Montagne Rocciose. Costruita tra il 1875 e il 1883 per fornire un collegamento affidabile alla zona delle miniere, la linea rimase in servizio fino alla metà degli anni ’60, quando al momento di mandarla in pensione le proteste degli abitanti convinsero le autorità del Colorado e del New Mexico ad acquistarne un tratto panoramico lungo il confine comune per trasformarlo in una fantastica attrazione turistica. Oggi si chiama “Cumbres & Toltec Scenic Railroad” e trasporta quotidianamente un centinaio di passeggeri da Chama (2.396 m) ad Antonito (2.404 m) e viceversa, zigzagando per undici volte da uno stato all’altro e fermandosi brevemente a Cumbres Pass, dove una cisterna per l’acqua e una stazioncina deserta presidiata da manzi al pascolo ricreano a quota 3.050 l’atmosfera della corsa all’oro.
Del resto, già avvicinandosi in auto da Santa Fe a Chama lungo la “U. S.Highway 85” e la “Route 68” (ma qui tutti le chiamano semplicemente eidifai e sixtiei), la sensazione di compiere il classico tuffo nel passato è pienamente confermata. Nei pressi dell’antico villaggio indiano di Taos Pueblo, la “68” incontra la mitica “Highway 64”, che dopo un viaggio di 3.000 chilometri iniziato nel North Carolina (sulla costa atlantica) rallenta pigramente la sua corsa per affrontare i monti delle grandi riserve indiane. Da qui in poi l’autostrada si distende nell’altopiano che precede i Monti Tulas, affiancata da picchi silenziosi che accrescono la dimensione irreale del paesaggio, ammantato di neve in inverno e punteggiato dal giallo dorato di miliardi di foglie di aspen (Populus tremula) sul finire dell’estate. Località come Tres Piedras, Los Ojos, Tierra Amarilla, Blanco non lasciano dubbi sulle origini spagnole dei colonizzatori della zona.
Dopo aver superato la spettacolare Gola del Rio Grande con un ponte alto duecento metri e attraversato il Continental Divide, lo spartiacque che separa i bacini idrografici dell’Atlantico e del Pacifico, ci si lascia alle spalle Dulce, il maggior centro della riserva Apache Jicarilla (si pronuncia “apàci hica-rìha”), per entrare nel vasto territorio dei Navajo, vale a dire la più estesa riserva indiana di tutti gli States. Decine di cartelli propongono l’acquisto di “pecore ben pasciute” e ovunque si incontrano empori che vendono vecchie coperte e monili indiani. A chi non si accontenta e desidera immergersi ancora più profondamente nella cultura indiana, non resta che sintonizzare l’autoradio sulla KTNN-660 AM, un’emittente locale che trasmette esclusivamente in lingua navajo.

Crocevia di Stati

Poco prima di Four Corners, l’unica località degli USA (e probabilmente di tutto il mondo) dove si incontrano perpendicolarmente quattro confini di Stato (Utah, Colorado, New Mexico, Arizona) abbandoniamo l’autostrada e i suoi confortevoli ed economici motel per dirigerci a sud verso le inquietanti rovine precolombiane del Chaco Canyon. L’arido deserto di Bisti Badlands con le sue bizzarre formazioni rocciose create dall’azione erosiva del vento prepara lo spirito alla concentrazione quasi mistica adatta a questa visita. Sul fondo piatto del canyon i resti affascinanti di decine di imponenti costruzioni dalla funzione tuttora ignota continuano a indurre le stesse sconcertanti domande senza risposta che dovettero porsi otto secoli fa i Navajo che per primi li scoprirono. Loro si limitarono ad attribuirle al misterioso popolo degli Anasazi (gli Antichi), discendenti degli dei; noi ci ostiniamo a formulare ipotesi più o meno attendibili (dalla catastrofe naturale alla partenza in massa a bordo di enormi astronavi) circa la sparizione improvvisa e senza tracce dei loro costruttori. Comunque sia, le recenti scoperte di allineamenti solstiziali e di un calendario solare tra le rovine di una mesa hanno valso alla zona il soprannome di “Stonehenge del West”. Colpiscono in particolare i resti di una lastra di roccia lunga un centinaio di metri, staccatasi dalla montagna dopo essere rimasta pericolosamente sospesa per centinaia di anni sopra le costruzioni. I Navajo la chiamavano “la montagna puntellata”, riferendosi al muraglione eretto dai loro sconosciuti predecessori alla base della roccia per rallentare l’erosione del terreno dovuta alle infiltrazioni di acqua. Quando nel 1941 la gigantesca lastra finalmente crollò, gli archeologi ritrovarono decine di bastoni intagliati e decorati con piume che gli antichi Anasazi avevano lasciato cadere nella fenditura in omaggio agli spiriti affinché prevenissero il disastro.
Per concludere sdrammatizzando, quando si parla del New Mexico sarebbe d’obbligo fare almeno un accenno al piccantissimo chili locale; noi invece preferiamo non menzionarlo affatto... tanto, per quanto il turista si sforzi, non riuscirà comunque a evitarlo.