IN AUTO DAL MAINE ALLA FLORIDA
Articolo premiato alla 1a Edizione dei USA Media Awards,
organizzata dal Visit USA Committee.
Riconoscimento Speciale per Originalità e Destinazione Insolita
Sezione Giornalismo


Pubblicato sul n. 337 della rivista ATLANTE
 (Febbraio / Marzo 1993)

Cara, vecchia NUMERO 1
ERA UNA PISTA INDIANA LA PIÙ VECCHIA STRADA DEGLI STATI UNITI.
LUOGHI E PERSONAGGI LUNGO I 3.970 CHILOMETRI DELLA “U.S. ONE”.
UN FANTASTICO VIAGGIO IN AUTO DAL GELO DEL MAINE AL SOLE DELLA FLORIDA

Testo: Guido Zurlino - Foto: Andrea Pistolesi

 

Quando vidi finalmente le onde dell’oceano che si abbattevano contro la costa scura e frastagliata del Maine non riuscii a trattenere un sospiro di sollievo. Per un attimo pensai all’Anabasi di Senofonte, poi il ricordo del grido di sollievo dei soldati greci alla vista del mare svanì come la nebbia sottile che mi circondava e immaginai di essere già in prossimità di Key West. In realtà, l’isola resa famosa da Hemingway e dalle sue battute di pesca al marlin si trovava quasi 4.000 chilometri più a sud, ma dopo aver guidato per un giorno lungo il confine tra Stati Uniti e Canada in un interminabile tunnel di fiocchi di neve scagliati contro il parabrezza da violente raffiche di vento, anche la visione di un mare gelido come quello della Baia di Passamaquoddy può creare strane associazioni mentali.
Ero entrato negli Stati Uniti all’alba, calandomi nel Maine dalla provincia canadese del New Brunswick, e la prossimità del Québec si era fatta sentire ancora per qualche ora. Le insegne dei negozi ammiccavano in francese, le pompe delle stazioni di servizio calcolavano la benzina sia in galloni sia in litri, e di tanto in tanto l’autoradio captava i programmi francofoni destinati ai villaggi che  sfilavano in successione a poche centinaia di metri da me, sull’altra sponda del fiume ghiacciato che segnava il confine con il Canada. Almeno in un dettaglio i notiziari in entrambe le lingue concordavano. Le condizioni del tempo. Che “11,4 sottozero” diventassero miracolosamente “11,4 sopra” da questa parte del nastro perlaceo del Madawaska River dipendeva solo da una bizzarra concidenza tra le scale termometriche Celsius e Fahrenheit. In realtà i due rilevamenti indicavano la stessa temperatura polare e la morsa del gelo era resa ancora più feroce da un “wind-chill factor” (fattore vento) di meno venti gradi, che sottoponeva ogni centimetro di epidermide esposta a un autentico test di resistenza artica. 

   



Un americano si costruisce la casa per la vecchiaia e la vende prima della posa del tetto, trova lavoro e lo cambia, si insedia in un’area e presto l’abbandona per trasferirsi ad almeno cinquecento miglia di distanza.” Così Alexis de Tocqueville descrisse più di un secolo e mezzo fa l’inclinazione del popolo americano ai grandi spostamenti. Da allora, immagini come un convoglio di carri nella prateria, due fari nella notte riflessi sull’asfalto bagnato, un autostoppista solitario sono diventati temi classici della cultura di questo paese, una sorta di ossessione della strada riproposta dalla letteratura e dal cinema in una linea di continuità tra la disperazione dei contadini di John Steinbeck, gli Okies di Woodie Guthrie, e la moderna ingenuità dei protagonisti di Easy Rider e Thelma & Louise. Nel mio caso, la lunga pista da percorrere “fino alla fine” era la mitica U.S. Highway One, ovvero la strada più antica degli Stati Uniti.
Era un viaggio che sognavo spesso quando vivevo nel nord del New England, dove l’inverno dura cinque mesi e si sente ancora parlare di Cabin Fever, la sindrome depressiva che assaliva i pionieri nelle loro capanne di tronchi semisepolte dalla neve.
Da quelle parti  nacque la leggenda di Paul Bunyan, il gigante-boscaiolo delle grandi foreste del Nord che compie imprese paradossali assieme a Babe, il suo inseparabile bue azzurro (naturalmente per il gran freddo). Trovavo stimolante che la “U.S One” ricalcasse antiche piste indiane e fosse punteggiata di ricordi storici, ma soprattutto mi affascinava che dopo aver attraversato quattordici stati la sua corsa si concludesse a Key West, in Florida, nel punto più meridionale degli Stati Uniti. Il solo nome del Sunshine State, “lo Stato del Sole”, evocava in me immagini di evasione in un paradiso terrestre, con alte palme frondose e lunghe spiagge di sabbia bianca sullo sfondo di un caldo mare subtropicale.
Anche Anne, l’agente della polizia doganale che qualche ora prima aveva controllato il mio passaporto sul ponte di Fort Kent, doveva aver provato lo stesso desiderio di fuga. “Durante la stagione fredda qui è tutto morto” mi aveva detto accennando col capo alla bianca fissità dello scenario. “A Natale le stazioni sciistiche sono gremite di turisti, ma per il resto dell’inverno persino le ville dei professionisti di Boston e New York rimangono sbarrate. Nessuno esce di casa e gli unici business che ‘tirano’ sono le videocassette a luci rosse e i superalcoolici”. Sessant’anni fa i suoi colleghi erano saliti agli onori delle cronache lottando contro gli importatori clandestini di booze (liquori) dal Canada, ma poi l’abrogazione del proibizionismo trasformò Fort Kent in una semplice macchia sulle carte stradali. Oggi sul suo ponte non transitano più finti funerali con le bare e le auto del seguito imbottite di bottiglie, ma al massimo qualche frontaliero che va a fare la spesa oltreconfine. Restituendomi il documento, Anne si era stretta nelle spalle con un sorriso. Il suo cognome francese tradiva la discendenza da una delle famiglie dell’Acadie esiliate dalla Nuova Scozia dopo il rifiuto di giurare fedeltà alla corona britannica ma ormai l’unico segno visibile di quell’antico spirito ribelle erano i fiorellini colorati che esibiva sul calcio di madreperla della pistola d’ordinanza.



Seguire la costa del Maine lungo la “U.S. One” significa dimenticarsi per lunghi tratti della presenza dell’uomo ed entrare a contatto con la forza della natura. Per avere un’idea dell’enorme varietà del paesaggio basta considerare che Eastport e Portsmouth distano in linea d’aria solo 370 chilometri ma le miriadi di insenature rocciose, baie, calette e fiordi che scolpiscono il litorale compreso tra queste due città si sviluppano per oltre 5.600 (più di tutta l’Italia peninsulare!). Il tratto della “One” che collega i due porti si snoda per 580 chilometri senza mai allontanarsi troppo da quella che i geologi definiscono una costa “sprofondata”. Nei punti più selvaggi la vegetazione è tipicamente nordica. Lunghe file di betulle dalla sottile corteccia bianco-argentata si alternano agli olmi sopravvissuti all’epidemia di inizio secolo, e di tanto in tanto un faro interrompe l’orizzonte. Tra le curiosità stampate sul menù di un ristorante per camionisti presso Kennebunkport leggo che la superficie del Maine è maggiore di quella degli altri cinque stati del New England messi assieme, mentre la sua popolazione è inferiore persino a quella del minuscolo Rhode Island. Più tardi, assaporando una clam chowder bollente (la zuppa di vongole locale) nell’attesa di un’ottima aragosta della Baia di Penobscot (in tutto quindici dollari e settantacinque, vino e mancia compresi), ricorderò che Stephen King è nato e vive nelle vicinanze. Che si sia ispirato alla bellezza e alla solitudine di questi paesaggi spettrali per scrivere il suo “Misery”?

A chi sa abbastanza di America, il nome Salem ricorda decine di romanzi gotici e film dell’orrore ambientati sullo sfondo di questa cittadina del Massachusetts, ma recentemente due newyorchesi che partecipavano a un quiz televisivo non sono riusciti a far meglio che associarlo all’omonima marca di sigarette. Un terzo concorrente ha inaspettatamente ricordato che qui nacque Nathaniel Hawthorne (quello della Lettera Scarlatta), ma neanche lui sapeva che il toponimo deriva da “shalom”, un termine ebraico che significa pace. A dispetto del nome, l’atmosfera che regnava qualche secolo fa nell’antico villaggio non doveva sembrare affatto tranquilla, soprattutto agli occhi delle vittime dell’ondata di isteria collettiva che raggiunse il culmine nel 1692. Erano trascorsi esattamente duecento anni dalla serendipità di Colombo e i figli dei Padri Pellegrini stavano ancora  “plasmando” la Nuova Inghilterra 
anzichè limitarsi a colonizzarla. In quella “vecchia”, i loro antenati calvinisti si erano scontrati con l’atteggiamento tollerante di Giacomo I nei confronti dei Papisti, sentendosi costretti, come sottolineò Artemus Ward “ad abbandonare una nazione dispotica per un paese libero, dove coltivare liberamente le loro idee religiose... ma soprattutto impedire agli altri di esprimere le proprie”. Fustigazioni, gogne, processi sommari erano all’ordine del giorno in quello che più tardi sarebbe diventato il più democratico degli States (se non altro nel senso del partito), tanto che il Re dovette intervenire personalmente affinché si riducessero le impiccagioni dei quaccheri nei giardini pubblici di Boston. In tale clima di paura e intolleranza era prevedibile che le favole voodoo raccontate ai bambini del vicinato da una schiava di Barbados incontrassero la disapprovazione dei benpensanti. Quando poi due cuginette particolarmente suggestionabili cominciarono a soffrire di convulsioni (forse per aver mangiato pane contaminato da funghi allucinogeni) e accusarono alcune vicine di aver gettato su di loro il Malocchio, si scatenò il finimondo. Nel giro di quattro mesi, diciannove persone (e due cani) finirono sul patibolo con l'accusa di stregoneria. Un ventesimo sventurato che non si decideva a dichiararsi né colpevole né innocente morì soffocato da un mucchio di pietre durante un interrogatorio, liberando i giudici dall’ardua scelta tra condannarlo all’impiccagione, come gli altri rei confessi, o al rogo, come chiunque rifiutasse “diabolicamente” di ammettere le proprie colpe.
L’opportunità di visitare i luoghi testimoni di quei tragici avvenimenti nella ricorrenza del trecentesimo anniversario è stimolante, anche se devo abbandonare momentaneamente la “One” dopo il confine tra New Hampshire e Massachusetts e allargare verso la costa per una ventina di chilometri. È inverno pieno e l’invasione turistica prevista con l’arrivo della bella stagione è ancora lontana. La gente del posto mi passa accanto con indifferenza, ma non è facile dimenticare un passato imbarazzante quando le autorità municipali hanno puntato tutto sulla sua rievocazione. A ogni angolo, manifesti e locandine propongono visite guidate al tribunale dell’epoca, allegre escursioni in tram alla “Collina del Capestro”, itinerari delle case delle vittime... e c’è persino un suggestivo Museo delle Streghe, dove ogni mezz’ora viene messa in scena una realistica rappresentazione dei processi. Mentre sto per ripartire, una coppia di turisti giapponesi mi prega di riprenderli con la loro Nikon. Nulla di più eccitante di una foto ricordo davanti ai sinistri frontoni coloniali della casa in cui il famigerato giudice Corwin “interrogava” i sospetti.

   

Se non fosse per una piazza “particolare”, la cittadina di Lowell in Massachusetts (97.249 abitanti nel 1950, 94.239 nel 1970, 92.418 nel 1980), sarebbe identica a tanti altri piccoli centri ormai decaduti della provincia americana. Una periferia esterna di casette di legno con la vernice che si scrosta dalle pareti delle verande. Una periferia interna di vecchie fabbriche abbandonate, con le ciminiere in mattoni rossi, testimonianze sbrecciate di un passato industriale neppure troppo recente. Un downtown anonimo con gli immancabili supermercati, il negozio di ferramenta e una banca aperta anche il sabato mattina. I pochi operai in strada prima dell’alba indossano giacconi a scacchi, berretti con i paraorecchi e vecchie Timberland acquistate prima che dall’altra parte dell’oceano perdessero la loro identità di calzature da lavoro e il loro prezzo raddoppiasse. Dietro una curva, la strada si allarga nella Eastern Park Plaza, anch’essa anonima, eppure, per qualche romantico viaggiatore come me, diversa tra tante altre uguali. Su un’area rialzata rispetto al piano stradale individuo i blocchi di marmo che stavo cercando. Sono neri, lucidi, quadrangolari, poco più alti di un uomo. Sui lati di questi monoliti, come tante steli funerarie, sono incisi i titoli e le prime righe di una diversa opera letteraria, in tutto una manciata di testi.
Quando incontrai Dean per la prima volta mi ero appena separato da mia moglie” recita in inglese la prima lastra levigata. È l’incipit di On the Road (Sulla strada), il libro sacro del movimento beat, che a partire dagli anni ’60 ha spinto milioni di viaggiatori lungo le strade di tutto il mondo. In rapida successione, lo sguardo scorre gli altri titoli: “Vanity of Duluoz”, “The Dharma Bums”, “The Subterraneans”, “Maggie Cassidy”... Su un blocco, lo scalpello ha inciso a lettere maiuscole un nome e due date: “Jack Kerouac - 1922 - 1969”. Chissà se i Cassidy abitano ancora al 31 di Massachusetts Street?



In qualsiasi parte del mondo un bostoniano si riconosce a un miglio di distanza.” A ribadire questa famosa affermazione di Samuel Drake è un insolito personaggio che ho incontrato in una frizzante mattina di febbraio nel Common di Boston, il grande parco che si estende ai piedi della pittoresca Beacon Hill. Alto, distinto, sulla cinquantina, abita in una casetta in stile federale sulla storica collina e da ventotto anni si occupa gratuitamente della manutenzione del Common. “Non che il Comune non faccia il suo dovere” puntualizza, “ma tutti vogliamo che la nostra città sia sempre la più bella, e per essere i primi della classe è necessario impegnarsi personalmente.” Consapevoli di vivere nella capitale storica e culturale del paese, gli abitanti di Boston non fanno nulla per nascondere il loro orgoglio, anche a costo di essere accusati di snobismo e arroganza. “Vantano sempre la loro virtù e il loro lignaggio” affermò Bertrand Russell, “ma non mi hanno affatto impressionato.” Prima di lui, Edgar Allan Poe era stato ancora più severo, definendo i propri concittadini “servili imitatori degli inglesi”. Forse intendeva vendicarsi per essere stato allontanato da un ennesimo ricevimento in preda all’alcol, o più probabilmente si limitava a criticare l’accento dei bostoniani, che non pronunciano la erre (all’inglese, appunto) anziché arrotolarne il suono come gli altri americani. “Paahk yoah kaah!” (parcheggia l’auto!) è il cliché usato per canzonare questa pronuncia un po’ affettata, anche se la scelta non poteva essere più infelice, perché trovare un posteggio a Boston è quasi impossibile. Le strade del centro ricalcano in gran parte la topografia del XVII secolo, e se lampioni a gas e acciottolati confermano il diritto della città di fregiarsi dell’ambita qualifica di “più europea d’America”, i problemi del traffico hanno raggiunto proporzioni inimmaginabili. Ingorghi e rallentamenti sono all’ordine del giorno, e quanto ai piccoli incidenti come tamponamenti e parafanghi ammaccati (per i quali è stato coniato il termine slang fender-bender), le assicurazioni parlano di primato nazionale. Sempre in grado di adattarsi a ogni situazione, i bostoniani hanno risposto a questi disagi con la stessa determinazione con cui i loro antenati scaraventavano in mare le casse di té degli odiati inglesi. Favoriti da una struttura urbana che permette di raggiungere facilmente tutti i posti “importanti”, molti lasciano l’auto a casa e preferiscono spostarsi con altri mezzi. Non è infrequente vedere studenti, impiegati e persino elegantissime segretarie (lo stile austero delle bostoniane è proverbiale) sfrecciare in sella a scintillanti biciclette da corsa o scivolare silenziosi su agili rollerblades, l’ultima novità in fatto di trasporti alternativi. “Le ruote sono più alte e sottili rispetto ai normali pattini, e la disposizione allineata permette maggiore velocità e controllo.” È il mio spontaneous gardener (come lui stesso si definisce) a spiegarmelo, indicando con orgoglio il paio color rosso fiammante che porta ai piedi. E i meno sportivi? Per loro ci sono i soliti tassisti, anche se al sabato sera, tra le coppiette all’uscita dei teatri, circola questa battuta: “Cara, torniamo a piedi o abbiamo abbastanza tempo per andare in taxi?”






Non mi sono fermato a New York. Anzi, non sono neppure entrato nella City, rispettando il tracciato della “One” che per la sua natura di “regina delle blue roads” aggira a nord l’appendice di Manhattan del grande ventre metropolitano e supera il fiume Hudson sulle arcate sovrapposte del George Washington Bridge. A sinistra svettano i grattacieli del downtown, mentre alle mie spalle rimane il Bronx, o più precisamente il Bronx meridionale, con i caseggiati grigi dai muri ricoperti di graffiti, punte di iceberg di un degrado che ha ingiustamente esteso la propria cattiva fama a tutta la splendida regione a nord della Grande Mela. Al di là del fiume, la “megalopoli della costa orientale” prosegue ininterrotta, ma geograficamente siamo già nel New Jersey: dapprima a Fort Lee e poi subito a Hoboken, dove negli anni ’30 si trasferivano i gangster espulsi dallo Stato per continuare a controllare “a vista” la City. I pochi chilometri che mi separano da Trenton, capitale del New Jersey e testa di ponte per il mio tuffo verso il sole, meritano una citazione se non altro perché furono percorsi dall’esercito di Washington per consegnare agli inglesi il suo regalo di fuoco nella notte di Natale del 1776.


Nella capitale pioviggina e le pale di un elicottero militare che sorvola il Vietnam Memorial diretto al Pentagono rompono il silenzio con il loro pulsare ritmico, creando un clima da Apocalypse Now. “Dopo venticinque anni mi fanno ancora rabbrividire” mormora sorridendomi un uomo stempiato di fronte a un monumento che raffigura tre marine. “Sono riprodotti in modo perfetti, amico. Guarda
per esempio le piastrine infilate negli stivali” (le chiama dog-tags, come le medagliette dei cani) “Le ficcavamo lì perché era più comodo. E la bandoliera attorno alle spalle? Io i proiettili li rivolgevo verso il basso, lontano dal viso.” Si chiama Carl e lavora in un centro di riabilitazione per reduci, dove viene quotidianamente a contatto con la realtà di un conflitto che per molti non è mai finito. A venti metri da noi, come una lunga cicatrice nera sull’erba, c’è il muro con i nomi degli oltre 58mila caduti in Vietnam, e a meno di un chilometro scorre la “One”, puntuale anche a questo appuntamento con la storia americana. Là mi aspetta un altro simbolo di questo Paese: la nuova Cadillac che ho noleggiato arrivando nella capitale. L’altra auto aveva il riscaldamento bloccato sulla posizione MAX, ma me ne sono accorto solo uscendo dal grande freddo del Nord.
 


In un anno, un americano percorre in media 12.500 chilometri al volante. Negli ultimi sei giorni ho guidato per 2.500 chilometri e sono appena a metà strada del mio viaggio. La Florida è ancora lontana, ma oltre il Potomac si respira già aria di “Vecchio Sud”. La One rinuncia ad assomigliare a una Highway e assume sempre più frequentemente l’aspetto di un vialone rurale, sfiorando assolati campi di battaglia della guerra civile e aie di vecchie cascine costruite prima che Ford democratizzasse l’automobile. In un solo anno il suo “Model T” fu acquistato da un milione e mezzo di americani e avviò il processo di ampliamento della rete stradale nazionale, ma come ogni rivoluzione, anche questa pretese le sue vittime. Arthur B. è l’anziano proprietario di una vecchia stazione di servizio sulla “Route One”, nel sud della Virginia, costretto a trasformare il suo “general store” in una bottega di robivecchi quando la lunga arteria divenne insufficiente ad accogliere il grande traffico e le fu costruita accanto la più veloce Interstate 95 (a pagamento). “Per me la recessione è cominciata trent’anni fa, quando i mostri se ne sono andati a est” dice, riferendosi ai giganteschi camion e alla moderna autostrada che scorre a un paio di chilometri. “Da allora trascorro le giornate ascoltando con il C.B. le conversazioni dei camionisti sulla “95” e servo qualche automobilista distratto che ha sbagliato uscita.” Dietro pile di libri polverosi, vecchi giocattoli che evocano sogni infantili, e  storiche copie di Playboy accatastate sul pavimento, occhieggiano curiosi alcuni gattini. Ninnoli pseudo-liberty e barattoli ammaccati ricoprono gli scaffali. Fuori, un’oca ben pasciuta passeggia tra le pompe arrugginite, e dalle crepe dell’asfalto spuntano ciuffi d’erba. La One è deserta, ma non mi stupirei se da un momento all’altro apparisse uno sgangherato pick-up con Jack Nicholson al volante. Lungo i monti Appalachi, il postino non ha ancora suonato per la seconda volta.




Chi pensa che non esista un’autentica gastronomia americana potrà ricredersi visitando gli stati del sud, dove le grandi tradizioni culinarie sono addirittura due: la “creola” e la “cajun”. La prima fu divulgata dalla cuoca di un governatore che aveva appreso dagli schiavi l’uso dell’okra, e costituisce la base della raffinata alimentazione urbana. La seconda (sebbene derivi dal francese acadien, cajun si pronuncia con l’accento sulla prima sillaba) è essenzialmente una cucina rurale, caratterizzata da preparazioni laboriose e gusti piccanti. Attraversando la Carolina del Sud e la Georgia c’è l’imbarazzo della scelta tra tanti punti di ristoro che assomigliano al Whistle Stop Café di Pomodori Verdi Fritti ma dove l’atmosfera, le torte alle noci pecan e l’accento yawl sono ancora quelli dei tempi di Via col Vento. Per chi non disdegna la musica di Zachary Richard e di gruppi come i Beau Soleil - e soprattutto per chi si adegua all’uso locale di ordinare grits (farina d’avena) con le uova e hush puppies (crocchette salate) con i piatti di pesce - la soddisfazione è garantita.


Sono passati cinque secoli da quando una freccia indiana fermò Ponce de Lèon nella ricerca della fontana della giovinezza, ma ancora oggi quel mito viene rinnovato da migliaia di pensionati che si trasferiscono in Florida sperando che l’eterna estate li faccia tornare giovani. Tutto cominciò alla fine del secolo scorso con la ferrovia del lungimirante Henry Flagler, ma il vero boom dell’immigrazione di massa si è verificato negli ultimi quattro decenni, determinando una singolarissima situazione demografica. Senza gli anziani che scendono dal nord a un ritmo di 15/18.000 al mese, la Florida sarebbe meno popolata del Minnesota, mentre già ora i suoi abitanti superano quelli del Nord Dakota, del Sud Dakota e del Nebraska, più tutti quelli del Minnesota. Ma senza di loro, l’età media scenderebbe a 25 anni (contro i 36 attuali) e l’indice di mortalità si abbasserebbe del 16%, assestandosi ai livelli del resto della nazione. Un dato impressionante, che se da una parte ha fatto guadagnare allo stato il soprannome di “patria di prossimi morituri”, dall’altra ne ha foraggiato le casse al punto da consentire un sistema fiscale esente da tasse sul reddito e imposte fondiarie e di successione minime o inesistenti. Di conseguenza, moltissimi giovani vengono qui a cercare impiego nelle strutture di servizi per la terza età, creando le premesse per un’industria del divertimento dedicata alle loro esigenze... la quale a sua volta attira ogni anno 35 milioni di turisti di ogni età. E il ciclo ricomincia.
 
St. Augustine è la più vecchia città degli Stati Uniti ed è anche la località dove mi riavvicino all’Atlantico dopo averlo lasciato dieci stati fa, nel Connecticut. L’unica differenza è che qui splende il sole e ci sono venticinque gradi in più. La fortezza che domina la baia, le tegole in cotto sulle chiese bianche di calce e le persiane verdi nei vicoli ombreggiati da palme e mangrovie testimoniano le origini spagnole della città e non fanno rimpiangere l’essenzialità presbiteriana della vicina Georgia. Da qui a Miami mi aspettano 500 chilometri di sogno: spiagge spaziose, pulite, e soprattutto libere. Il turchese del mare e lo spettro della luce sono di quelli che non creano problemi neppure agli esposimetri più permalosi, mentre la temperatura dell’acqua è garantita dalla Corrente del Golfo, così calda che in estate persino gli squali preferiscono risalire verso le coste settentrionali. Io invece punto diritto a sud, anzi, verso il punto più meridionale della città più meridionale degli USA, ignorando località dai nomi seducenti come Daytona, Orlando, Disneyworld, Cape Canaveral, Palm Beach, Boca Raton, e persino Fort Lauderdale e Miami Beach con i loro concorsi di Miss Spiaggia e Mini-Bikini, nella fretta di raggiungere l’ultimo dei cartelli con il numero “1” che indichi la fine del mio viaggio. Ne ho incontrati centinaia da quel lontano “Zero Mile” di Fort Kent, anticipando ogni volta il momento conclusivo di questa avventura di 3.970 chilometri. Più o meno la distanza stradale tra Madrid e Atene.



In sintonia con le tante curiosità che la caratterizzano, Key West è l’ultima e anche la più famosa di un pugno di keys (dallo spagnolo cayo, isoletta) che si protendono nel Golfo del Messico lungo un sottile arco corallino di 200 chilometri. Per raggiungerla occorre superare con spettacolari balzi panoramici i 42 ponti della “Route One”, che in questo tratto prende il nome di Overseas Highway - la strada sull’acqua più lunga del mondo. Sebbene siano identificate da un’unica denominazione geografica, le keys si differenziano per cultura e tradizioni e presentano grandi divari tra lo stile di vita moderno di quelle settentrionali e la tranquilla esistenza dei conch nativi delle isole inferiori, scandita dai lenti ritmi della natura. L’ora migliore per arrivare a Key West è il tardo pomeriggio, giusto in tempo per unirsi alla piccola folla di turisti che esce da bar pittoreschi come lo Sloppy Joe’s (dove Hemingway “beveva e faceva a pugni”) e si reca al Mallory Pier per assistere al tramonto del sole: un rito quotidiano così importante che la radio locale diffonde l’ora esatta dell’avvenimento e le previsioni metereologiche sulla sua spettacolarità. Il clima è quello dell’America anni ’70, con giocolieri, mimi, musicisti, hippy vecchi e nuovi che si abbandonano a scroscianti applausi quando la gigantesca palla infuocata sprofonda nel mare color cobalto. La Giamaica non è lontana, ma l’odore di erba bruciata che sento nell’aria proviene da molto più vicino. In tono più moderato, la stessa cerimonia ha luogo al Southernmost Point, dove il pubblico è formato da romantiche coppiette e silenziosi adoratori del sole. Un cippo dipinto a mano avverte che questo è il punto più meridionale degli Stati Uniti e mi rammenta che Cuba dista “soltanto” 90 miglia (145 km). Reminiscenze della guerra fredda! E la Route One? Muore in fondo a Truman Avenue, discretamente come è nata presso quel lontano ponte di Fort Kent, lassù nel Maine. Ma al mio arrivo non trovo nessun cartello “Zero”, perché il solito collezionista di souvenir l’ha rubato. Domani mattina, puntuale come il sole che sorge ogni giorno sull’Highway One, la squadra addetta alla manutenzione avrà già provveduto a rimpiazzarlo.

Guido Zurlino