GOA E KARNATAKA:

UN VIAGGIO DI RISCOPERTA NELL’INDIA DEL SUD
DALLE SPIAGGE DORATE DEI FIGLI DEI FIORI AI PALAZZI E I TEMPLI DELLA TERRA DEI SULTANI





    Si diceva che ci andasse Frank Zappa a tenere concerti memorabili, e già quello a noi bastava. E poi, il nome suonava bene. Goa. “Goa dourada” sussurravano con aria ispirata quelli che la sapevano lunga, ma in realtà eravamo in molti a credere che quel nome si riferisse a un’isola, e prima di deciderci a partire l’avevamo cercato invano sull’atlante, laggiù, dalle parti del Mar d’Arabia.
Tornare dopo vent’anni nello stato indiano di Goa è un po’ come rivedere un vecchio film in bianco e nero colorato artificialmente con il computer. La nostalgia di sensazioni ritenute irripetibili viene sopraffatta dalla meraviglia, e ricordi e confronti si susseguono a ruota libera. A quei tempi in India era in voga andarci in modo alternativo. Si arrivava in treno fino a Istanbul e da lì si continuava il viaggio con mezzi di fortuna. C’erano i pittoreschi “magic bus” e gli sgangherati Volkswagen carichi di hippy disposti ad accettare qualche passeggero in più in cambio di un contributo per la benzina. E c’era addirittura chi proseguiva da solo, in autostop, sopportando i camionisti turchi e i loro resoconti di fantastiche avventure con disinibite figlie dei fiori americane e tedesche. In tutto occorrevano un paio di settimane e si dovevano superare una mezza dozzina di frontiere, compresa quella famigerata dell’Iran, con le foto bene in vista dei trafficanti di droga condannati a morte e i doganieri che auscultavano il cuore di chiunque avesse l’aria sospetta...
Ma tutto questo accadeva vent’anni fa. Oggi un volo diretto dell’Air Europe collega in sole nove ore Milano a Dobalim (30 km dalla capitale Panaji), risparmiando ai viaggiatori il disagio di coincidenze soppresse all’improvviso e attese interminabili negli aeroporti di un paese che ha fatto della pazienza l’arma più efficace per la conquista della libertà. Spostandosi in auto da Dobalim verso Goa Velha, l’antica capitale, appare subito evidente che sebbene il turismo di massa abbia sostituito gli hippy ci troviamo ancora in quella specie di enclave felice che i portoghesi riuscirono a controllare fino al 1961, quando lo stato entrò a far parte dell’Unione Indiana. La regione è incastonata come un gioiello tra la catena dei Ghati occidentali e il Mar d’Arabia, con morbide colline coperte di boschi di mogano e di mango e una ricca rete di fiumi che discendono lentamente verso le spiagge assolate. L’abbondanza d’acqua permette due raccolti di riso all’anno, che affiancati alla pesca e al recente sviluppo dell’industria cantieristica garantiscono allo stato il reddito pro-capite più alto dell’intera Unione. Già nei villaggi assonnati, con le loro chiese bianche, le stradine strette e i tetti di tegole rosse si nota la bizzarra simbiosi tra due culture antitetiche come quella orientale e quella europea e tra due religioni diverse come l’Induismo e il Cristianesimo, ma è solo nell’ex-capitale che l’influenza portoghese appare in tutta la fosca bellezza descritta nel 1913 dagli articoli di Guido Gozzano per “La Stampa”. La cattedrale rinascimentale di S.Caterina e la vicina basilica barocca del Bom Jesus sono le due pietre miliari dell’architettura goana, testimonianze di un passato talmente splendido da giustificare la famosa affermazione nata in Portogallo nel XVII secolo: “Quem vin Goa excuse de ver Lisboa” (chi ha visto Goa non ha bisogno di vedere Lisbona).
    Degli oltre cento chilometri di litorale che si affacciano sul Mar d’Arabia al centro della costa occidentale dell’India, le due spiagge di Anjuna e Vagator furono quelle che alla fine degli anni ’70 crearono l’immagine stereotipata del Goa quale “ultimo paradiso dei figli dei fiori”, ma anche quella poco edificante di estremo rifugio dei drogati. Il nudo integrale (tollerato, sebbene non permesso), la libertà dei costumi e l’atteggiamento indulgente della polizia e degli abitanti nei confronti delle stravaganze dei giovani occidentali attirarono inevitabilmente l’interesse della stampa internazionale. Il clima e i chilometri di sabbia d’argento fecero il resto, e la grande macchina dell’industria turistica non tardò a mettersi in moto. Oggi lo stato è in grado di accogliere senza problemi più di un milione di visitatori all’anno, ma se i nuovi progetti di sviluppo saranno approvati le strutture alberghiere si quadruplicheranno entro il 2000, minacciando l’ambiente e l’equilibrio del mare già in pericolo per le crescenti richieste di specie ricercate come aragoste e gamberetti. Quanto ai vecchi hippy, se ne sono andati da tempo, soppiantati dall’ultima generazione di radical-freaks, più danarosi, poco inclini ai piaceri psichedelici e rivolti alla carriera e al culto dell’aspetto fisico. Passeggiando sulle lunghe ed esclusive spiagge di Calangute e Candolim non è raro incontrare artisti di fama internazionale o professionisti locali, come lo stilista Joad T. (definito l’“Armani indiano”), con il suo seguito di fotografi e bellissime top-model. “Vengo qui a riposarmi non appena ho qualche giorno libero - mi ha confidato una ragazza del suo gruppo. - I prezzi sono bassi, e a parte le vacche sacre che stazionano sulla spiaggia non mi sembra neppure di essere in India.”   Solo di tanto in tanto, tra i mercatini delle pulci, qualche anacronistico personaggio che pare uscito dal cast di “Hair” avvicina i turisti esibendo furtivamente interi campionari di sostanze illegali. A coloro che malgrado ogni ovvia considerazione non riuscissero a resistere alla tentazione di sfidare la legge, il consiglio migliore è quello di mantenersi almeno nell’ambito dei prodotti “naturali”, restando opportunamente alla larga da derivati chimici o di sintesi. Chi invece ha gusti più ordinari ma non disdegna comunque le sensazioni forti, potrà sostare in una delle tante tavernas sulla spiaggia e aspettare il tramonto sorseggiando alcuni bicchierini di feni, il distillato locale servito nelle due varietà al cocco e all’anacardo (decisamente preferibile la prima).

    Sono sufficienti cinquanta minuti per volare al di là dei Gathi e atterrare nel cuore del Karnataka, lo stato confinante con il Goa, ma l’impressione è quella di fare un tuffo indietro nel tempo di centinaia di anni. Qui, lontano dalla costa che vide approdare gli antichi greci, le due città di Bangalore e Mysore si contendono la supremazia culturale della regione a colpi di reminiscenze storiche. La prima città sorge a 1.000 metri di altitudine sulle propaggini meridionali del Deccan, un altopiano ricco di piante da legno come l’arèca, il teak, il palissandro, ma anche di spezie come il pepe e il cardamono, largamente usati nella cucina indiana. Nel vicino Parco Nazionale di Bannirghatta vivono quasi cento varietà di volatili, oltre a bisonti, cinghiali, agli imponenti gaur (Bibos gaurus) e agli entelli dalla lunga coda (Presbytis entellus). Nel periodo coloniale il clima fresco e asciutto della zona la fece prediligere dagli inglesi quale luogo di villeggiatura, e un giovane ufficiale di nome Winston Churchill ebbe modo di apprezzarne le qualità durante un breve soggiorno.
    Mysore, capitale dell’antico stato omonimo e citata nel grande poema epico Mahabarata, è invece conosciuta per la fragranza del suo gelsomino e del legno di sandalo, oltre che per la bellezza delle sete. Tra i molti luoghi che meritano una sosta lungo la strada (in verità un po’ dissestata) che collega i due centri, ricordiamo un varco tra le colline che fecero da sfondo ad alcune scene del film “Passaggio in India”, e il fantasmagorico palazzo d’estate, a Srirangapatnam, del sultano Tipu, “la Tigre di Mysore”, sconfitto e ucciso dal Duca di Wellington nel 1799.
    Hassan, il terzo vertice di questo triangolo, è una città abbastanza insignificante ma rappresenta un’ottima base di partenza per una serie di escursioni di grande interesse artistico e religioso. Nel raggio di una trentina di chilometri sorgono infatti gli incomparabili templi di Chennakesava, presso Belur, e di Hoysalesvara presso Halebid. Entrambe le strutture furono costruite nel XII secolo e si prestano al confronto con le grandi cattedrali europee erette nello stesso periodo. Purtroppo non è possibile apprezzarle pienamente, perché è stato calcolato che dedicando dieci ore al giorno allo studio dei fregi esterni del tempio di Chennakesava occorrerebbero più di due settimane per vederli tutti. I finissimi lavori di intaglio nella steatite nera delle pareti riproducono tutti i momenti della battaglia di Talakad e centinaia di scene tratte dai classici poemi Ramayana e Mahabarata. Secondo la leggenda, la seducente regina Shantala Devi soleva danzare in onore del dio Krishna sulla piattaforma di pietra all’interno del tempio.
    Ritornando a Bangalore da Hassan si incontra una delle opere d’arte religiosa più impressionanti di tutta l’India meridionale (anche se forse non la più bella). È l’enorme statua di 17 metri e mezzo del santo giaina Gomateswara, raffigurato completamente nudo (secondo le regole della sua setta) sulla sommità della collinetta di Vindhyagiri, nei pressi di Sravanabelagola. Ricavata da un unico blocco di granito, l’effige è meta di pellegrini che a piedi nudi e sotto il sole cocente salgono (spesso di corsa) una ripida scalinata di 630 gradini scolpiti nella roccia viva. Per i turisti è previsto un servizio di portantine, ma ai coraggiosi che rinunciano a questo lusso un po’ decadente, lo spettacolo impareggiabile della valle... e soprattutto il fiato corto e le pulsazioni accelerate garantiscono la comprensione dell’esperienza mistica (provare per credere). La discesa non è meno faticosa, ma la visione delle bancarelle che vendono fresca acqua di cocco ai piedi della collina rinnova le forze. Una curiosità: durante la guerra del Vietnam questo liquido era usato per praticare fleboclisi d’emergenza ai soldati feriti. Se ne può quindi bere a volontà senza il minimo timore. Tra l’altro, le sue proprietà idratanti ne fanno un ottimo coadiuvante nella cura della “vendetta della Tigre di Mysore”. E scusate se è poco.